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À la recherche d'Alice
Lingua e contesto culturale: la lessicultura
di Maria Giuzio

“Le dialogue des cultures n’est pas dissociable d’un dialogue interpersonnel, entre soie t un autre à la fois semblable et différent, entre soi et et soi confronté à des messages autres que ceux auquels on est accoutumé”

(Henri Besse 1984:99)

Saper parlare una lingua straniera non significa limitarsi all’apprendimento e all’applicazione delle regole sintattiche, né tantomeno saper conversare fluentemente ed in maniera disinvolta. Si tratta di un processo che richiede un giusto equilibrio di entrambe le cose. Un emigrante o chiunque scelga di stabilirsi definitivamente in un paese straniero sarà sicuramente in grado di parlare la lingua del posto e afferrare determinati giochi linguistici meglio di uno studente che limita l’apprendimento a livello scolastico. D’altro canto, anche il più esperto fruitore della lingua si troverà a fare i conti con situazioni che richiedono una certa preparazione: scrivere una lettera o rivolgere qualsiasi tipo di richiesta che esiga un determinato registro linguistico e una preparazione scolastica ben mirata, rappresenterà un ostacolo insormontabile che solo chi ha ricevuto un buon grado d’istruzione sarà in grado di affrontare.

La scelta di approfondire l’aspetto culturale e sociale della lingua rappresenta un obiettivo imprescindibile per tutti colore che desiderano entrare a far parte in toto della lingua di riferimento. L’apprendimento in un contesto naturale o spontaneo non solo invoglia a mettere alla prova se stessi e le proprie conoscenze, ma sviluppa un senso critico e una lucidità nei confronti dei propri limiti e delle proprie capacità, che è possibile sviluppare soltanto attraverso il confronto diretto con l’altro e con l’ambiente d’appartenenza.

La percezione dell’alterità rappresenta uno stimolo importante per elaborare e sviluppare la propria identità, anche linguistica, e per misurarsi a livello culturale oltre che umano.

Il contatto con la lingua avviene attraverso un processo che si arricchisce di giorno in giorno ed in maniera sempre più intensa tanto da aprire finestre su un mondo nuovo e fino ad allora sconosciuto.: l’altro diventa un fratello, un proprio simile. Anche il concetto di straniero cambia.

L’iniziale approccio di diffidenza e timore con il quale ci si avvicina ad una realtà a noi estranea è destinato a lasciare il posto ad un atteggiamento di condivisione e tolleranza verso qualcosa che non viene più percepito come diverso, bensì come parallelo e – talvolta- di alternativo. La diversità diventa allora una risorsa, una prospettiva nuova che conduce verso una dimensione sempre allargata, e l’approccio interculturale permette all’apprendente di sentirsi portatore di questa nuova visione. Non si tratta più di essere un semplice spettatore, bensì di vestire i panni di attore sociale: al savoir inteso come insieme di nozioni da immagazzinare passivamente in un contesto guidato si sostituisce il savoir-faire, ovvero la capacità di gestire concretamente le situazioni che di volta in volta si presentano ai nostri occhi. Solo dopo aver maturato un tale atteggiamento di disinvoltura si può effettivamente dire di aver raggiunto il gradino più alto della scala, il savoir-être/vivre che segna un passo avanti nel percorso culturale.
Tale concetto, sviluppato negli anni ’70 del ‘900 da Robert Galisson e riassunto sotto il nome di Lessicultura, si inserisce in una dimensione sociale ed esistenziale per cui l’apprendente esce dal suo ruolo, comincia a muovere i primi passi fino a giungere alla piena autonomia e consapevolezza delle proprie conoscenze.

La Lessicultura, altrimenti conosciuta sotto il nome di pragmatica lessiculturale, rappresenta ancora oggi una sorta di filo d’Arianna nel campo della didattica delle lingue straniere, proponendosi come obiettivo quello di integrare l’aspetto culturale nell’insegnamento della lingua. Il suo apporto innovatore consiste nel riconoscimento dell’indissociabilità tra la lingua e il contesto nel quale essa prende vita.

Lo stesso Galisson suggerisce il termine di langue-culture precisando che “il trattino presente tra i due termini indica che un aspetto è presente nell’altro e viceversa”, e sottolineando ancora una volta il carattere pragmatico e d’intervento di tale disciplina.

Il principio-guida di tale riflessione prende in considerazione il fatto che non è ammissibile l’esistenza di una lingua che non sia immersa in un contesto culturale. E’ attraverso la lingua che è possibile accedere ad una cultura e scoprirne il suo modo di concepire ed interpretare la realtà, in quanto è essa stessa che influenza e determina l’universo circostante. Quest’ultimo non esiste in quanto entità reale e oggettiva, bensì come interpretazione che di esso si fa per mezzo della lingua.

La visione del mondo si costituisce allora nelle lingue, espressioni di differenti culture, e di conseguenza non vi sarà un solo mondo, ma una pluralità di mondi corrispondenti alla pluralità delle prospettive che ciascuna lingua dischiude. Gli esseri umani segmentano la natura secondo le linee indicate dalla loro lingua materna, con la conseguenza che il mondo si presenta come un flusso molteplice di impressioni le quali devono essere organizzare dalle proprie menti attraverso il sistema linguistico di riferimento. Ogni parlante è orientato dalla propria verso differenti tipi di osservazione e differenti valutazioni di eventi esterni giungendo così ad una visione del mondo diversa rispetto ad un altro sistema linguistico. Il merito di Galisson è stato proprio quello di sottolineare e donare dignità all’aspetto culturale nell’ambito della didattica delle lingue straniere come elemento fondamentale di fusione con il sistema linguistico al quale si desidera appartenere.

Aldilà del confronto, il contatto con la cultura altra provoca fenomeni interessanti: in primo luogo i due individui o gruppi sociali, alla ricerca di punti comuni, sono obbligati a prendere le distanze dal loro ambiente culturale originario, di appartenenza, per andare incontro ai valori condivisi nella realtà di arrivo. Tale distanza induce ad una riflessione sulla propria cultura, una sorta di autocritica verso la quale l’altro ci spinge per mezzo delle sue differenze, le sue domande, il suo stupore dinanzi ad un universo estraneo, porgendoci una sorta di specchio nel quale rifletterci attraverso i suoi occhi. Non contenti di ampliare e confrontare i rispettivi punti di vista, le relazioni interculturali permettono di crearne di nuove.

Contrariamente a quanto si è soliti pensare, lo scambio non è tale quando una delle due parti ha adottato la cultura dell’altro (in questo caso si parla di acculturation), o ne ha appreso la lingua, bensì quando anche oltre il contesto di scambio continuano a svilupparsi delle nuove prospettive impregnate delle rispettive culture.

Ecco la ragione per la quale vivere all’interno di una cultura straniera non vuol dire tendere all’imitazione, all’assimilazione, all’automatizzazione, ma alla comprensione, al confronto e all’iniziativa al fine di mantenere sempre viva la curiosità nell’apprendimento della lingua per viverla appieno in tutte le sue sfaccettature.

Maria Giuzio

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