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Il canto fioco e profondo di
Marceline Desbordes-Valmore

di Andrea Galgano

«

(…) con voce alta e chiara proclamiamo che Marceline Desbordes-Valmore è semplicemente – con George Sand, così diversa, dura, non priva di affascinanti indulgenze, di alto buon senso, di fiero e per così dire maschio portamento – la sola donna di genio e talento di questo e di tutti i secoli, in compagnia forse di Saffo, e di Santa Teresa.

»

Scrisse così Paul Verlaine in modo lapidario ma efficace, concludendo il suo articolo, il primo della seconda serie, dei suoi Poètes Maudits, su Marceline Desbordes-Valmore (1786-1859).

Il percorso critico di Verlaine, pertanto, cercava di ampliare il discorso già iniziato da Baudelaire e da Rimbaud, su una poeta-donna, definita “église aux cent chapelles”, ma imponeva l’attenzione al grande magma di qualità che possedeva: madre, ragazza e “inquieta ma sincera cristiana”.

La lettura della sua opera destò in Verlaine un sommovimento, una grazia cara, poiché “cade dalle mani la penna mentre lagrime deliziose bagnano «le nostre zampe di gallina». Ci sentiamo impotenti a sezionare oltre un simile angelo”. Ma tempo prima, anche Victor Hugo nel 1821 appuntò: “Mi sembra che la signora Desbordes-Valmore non abbia ancora ottenuto se non la metà del trionfo che spetta a un talento quale il suo; i suoi versi appassionati vanno al cuore; imprima loro un carattere religioso, e toccheranno l’anima”, e Lamartine successivamente dirà: “(…) L’uccello che imita la voce, ti ha prestato il suo lamento e i suoi canti…”.

Chi è  Marceline Desbordes-Valmore? Qual è la genesi del suo verso?

Sainte-Beuve può segnare i passi di una comprensione: “Se qualcuno è stato ben dotato fin dall’inizio, è proprio lei: essa ha cantato come canta l’uccello (…) senza altra scienza se non l’emozione del sentimento, senza altro mezzo che la nota naturale (…). Da ciò, nei suoi primi canti soprattutto (…), qualcosa di particolare e di inatteso, di una semplicità un poco strana, di un’elegante ingenuità, di una passione ardente e candida …”

La forza dell’opera di questa donna risiede in una purezza vibratile e rigorosa, un canto che tocca la superficie delle cose e della realtà, per intessere una vaghezza di voce e una sperdutezza roca, come scrisse Baudelaire: “Se il grido, se il sospiro di un’anima eletta, se la disperata ambizione del cuore, se le facoltà improvvise, spontanee, se tutto  ciò che è gratuito e viene da Dio è sufficiente per fare un grande poeta, Marceline Desbordes-Valmore è e sarà sempre un grande poeta (…) un’improvvisa bellezza, inaspettata, ineguagliabile vi apparirebbe, ed eccovi irresistibilmente elevato nel cielo della poesia. Nessun poeta fu mai naturale, nessuno fu mai meno artificiale”.

L’intervento di Baudelaire mette l’accento sul movimento poetico, non solo della Desbordes-Valmore, ma di ogni gesto artistico: la gratuità e la febbre di un’obbedienza.

Poetessa, cantante e attrice, nata a Douai, una piccola città della Fiandra francese, di famiglia piccolo-borghese, sperimentò nella sua esistenza l’esodo familiare, il disagio e la miseria di un vagabondaggio, che la spingerà, poco prima della morte della madre, persino a Guadalupe.

La conoscenza di Henry Latouche, scrittore e commediante, è la sua follia e il suo tormento. Il varco verso la voragine di un colpo fermo, così come  il suo “Olivier” della profondità del cuore.

Nonostante il matrimonio con Prosper Valmore nel 1817 e i quattro figli, di cui tre morti prematuramente, è nella stanza di Henry che dimora il fiore della poesia, la sua vorace bellezza e la sua sospensione di sogno:

«Librati, anima mia, su questa folla ignara. / Libero uccello immergiti nel cielo spalancato».


Il cielo di Marceline è madreperlaceo, come il candore violento di un’anima lieve:

«Quel gran soffio d’amore dentro il bacio che anelo/ dalle tue labbra chiuse, io non lo so rapire. / Se tu me ne fai dono, avrò giù terra in cielo/ Ma il tuo sonno si ostina. E tu mi fai morire».

La purezza si accompagna sempre a una passione per l’umano, alla vivezza di un amore che si imprime, come cantico, alla traversata di una domanda e di una voce di tempo:

«Cercarsi, cogliere uno sguardo furtivo, non è già tutto? / E più non domandarmi, con mesto sorriso, / il fiore che danzando trattengo mio malgrado: / lo sento sul mio cuore quando il cuore lo desidera, / e mi si legge negli occhi che lo colsi per te».
Il fuoco della controversia è il parto di un’anima sofferente, lontana nel tempo e nello spazio: «Sarà, lagrima dopo lagrima, e tormento su tormento, /il puro parto delle anime sofferenti».


La corporeità del cuore raggiunge l’incorporeo acceso della condizione umana, come scrisse Honorè de Balzac: “Marceline ha pertanto conservato il ricordo di un cuore che sente pienamente riecheggiare, lei e le sue parole, lei e le sue poesie, giacchè siamo dello stesso paese, Signora, del paese delle lacrime e della miseria”.

Ma il suo lamento non è lo schianto di un’anima. Ma il limite dell’anima. Inattesa come la parola che sprofonda, come la crescita del tempo che si scopre, inventa linguaggio, propone metrica alta:

«Mio unico amore! Baciami.
Se la morte mi chiamerà prima di te,
benedico Iddio; tu mi hai amata!
Dolce imene che durò pochi istanti;
vedi: ai fiori una sola primavera,
e la rosa muore ancora odorosa.
Ma quando a parlarmi verrai
Sommessamente, ai tuoi piedi, nella tomba,
temi che non ti ascolti?».
Marceline Desbordes-Valmore

Come ha giustamente osservato Giuseppe Pintorno, fine traduttore dell’opera di Marceline, la sua voce: “via via ride gioiosa, o velata di nostalgia e rimpianto, o resa quasi afona dal dolore; specchio dell’anima, dell’emozione d’amore: amore di donna, di figlia, di sorella, di madre. Ma sempre voce d’amore”.

Ecco l’origine del suo testo cantato come germoglio. Il velo della gioia e l’afonia del dolore colorano il suo cielo, in una campitura trafitta e fragile che sostiene la volta del suo amore indicibile, che arde e desidera compimento, e, nel contempo, dipinge paradisi.

È l’elegia che incarna il tempo, l’autentica cantica esiliata che grida nei bagliori. L’abbandono totale, l’anelito senza scampo alla felicità suprema contemplano la naturalezza di una forza, infilata negli squarci d’eterno.  Un sogno che smarrendosi e ferendosi, si ritrova.

Il fragile roseto che invade il suo interno appare la stanza di un’onda fuggitiva che impagina i colori dell’anima, come il grembo di un fiore prezioso, solcato dai fumi dello stesso male che la portò via.

La fragilità di una donna che ama non è debolezza sentimentale di una sorda lagnanza, ma la potenza di un cuore che piove sul tempo, che non censura la storia, per diventare poesia autentica e gesto sospeso. Il suo grido e il suo ricordo, la «mobile frescura» di una sinestesia annidata nei tremori dell’abisso.

 

Andrea Galgano
Laureato in Lettere moderne all'Università della Basilicata, docente e critico letterario presso il Polo Psicodinamiche di Prato.

per gentile concessione del Forum 2012 Polo Psicodinamiche          Il file PDF pdf

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Marceline Desbordes-Valmore

Mio unico amore! Baciami.
Se la morte mi chiamerà prima di te,
benedico Iddio; tu mi hai amata!
Dolce imene che durò pochi istanti;
vedi: ai fiori una sola primavera,
e la rosa muore ancora odorosa.
Ma quando a parlarmi verrai
Sommessamente, ai tuoi piedi, nella tomba,
temi che non ti ascolti?

T’ascolterò, mio unico amore!
Triste nell’ultima dimora,
se il coraggio ti abbandona;
e la notte, senza impormi,
verrò a rimproverarti dolcemente,
poi a dirti: «Dio ci perdoni!».
E, con voce che viene dal cielo,
sommessa, ti dipingerò il paradiso:
temi di non udirmi?

Staccandomi dai tuoi occhi, sola andrò
Ad attenderti alla porta del Cielo,
e a pregare per la tua salvezza.
Oh! Dovessi attendere a lungo,
vorrei trascorrere i miei istanti
ad alleviarti la pena;
finché un giorno, con la Speranza,
verrò a sciogliere i tuoi passi;
temi forse che non venga?

Verrò, perché fino alla morte
Non ti stanchi di amarmi;
e come due colombe fedeli, separate nei giorni cupi,
per salire dove si vive in eterno,
intrecceremo i nostri voli!
Là sono eterne le ore:
quando, sommesso, Dio lo promise,
credi che non l’ascoltassi?

 

 

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