Jean Racine e il Sacro
di Andrea Galgano
«Sostieni i loro sforzi, disfa l’ombra nera».
Si potrebbe usare questo verso abissale di Jean Racine (1639-1699), per entrare nel suo guado poetico che raggruppa i suoi Cantici Spirituali e i suoi Inni, poco conosciuti nelle parafrasi meditative e negli slanci interpretativi. È un verso di supplica e di fervore dell’Inno del mattutino del Giovedì, secondo i dettami spirituali di Port-Royal, luogo di inviti e inattesi sperdimenti, tesi alla bellezza, alla chiarezza e all’eleganza dell’ermeneutica biblica.
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È un nuovo metodo per leggere Racine, che nonostante la “finta conversione” secondo Roland Barthes, si appropria di una pacificazione e di una cristallina e indubitabile purezza di verso. Ma è un percorso che raggiunge una lontananza antica: Ambrogio, Gregorio Magno, Prudenzio, vissuti secondo una profondità storica e drammatica, allo stesso tempo. |
Una inquietudine di inno, un processo di instabile caravaggesco chiaroscuro: questo è Racine sacro, se così possiamo definirlo, studiato puntigliosamente da Irene Santori. Il «dénouement» apre sempre spazio al dramma, proprio perché la fede è un fuoco di controversia e un viaggio intrepido alle radici dell’essere. Mattutino, vespri, inni sono accompagnamento di cenni e percorsi che ricordano le fratture e gli sbalzi dell’esistenza e ripercorrono la mendicanza dell’uomo. Anzi la fede di Racine si poggia proprio sul giudizio di valore della vita del mondo che rifulge, come sorgente, nel gesto ampio della morte e della risurrezione di cui facciamo memoria. Spesso racchiudere un autore in un’etichetta è una sorta di violenza sottile e invasiva. L’opera di Racine ha rivestito di splendore il teatro con le sue tragedie di passione e gloria e ha fuggito la cupezza del fuoco spirituale di Port-Royal, vivendo gli ossimori della corte parigina, la tensione espressiva con Molière, la femminilità erotica. Scrive Irene Santori: “Port-Royal fu inequivocabilmente il primo centro di elaborazione di una teoria dell’inconscio, si può ben intuire quindi quali diaboliche implicazioni essi potessero cogliere nel comportamento mimetico degli spettatori, deliberatamente invitati a fruire lo spettacolo delle passioni la cui impressione perdura ben oltre l’epilogo della recita, vivificando e dando corpo nella voragine del moi a tutti quei fantasmi e a quelle chimere viste sulla scena. Il cuore umano corrotto dal peccato originale, seppure la ragione li aborrisca, naturalmente si inclina verso gli appetiti che lo accendono e si fa tutt’uno con ciò che vede rappresentato”:
«Mio Dio, che guerra crudele! / Due uomini trovo in me. / L’uno vuole che, pieno d’amore per te, / il mio cuore ti sia sempre fedele. / L’altro alla tua volontà ribelle / contro la tua legge mi scatena. // L’uno, spirito etereo / vuole che al cielo, strenuamente legato, / e dagli eterni beni preso, / io conti per nulla il resto. / E l’altro col suo peso funesto / verso la terra mi tiene curvato».
Ma quel verso iniziale è un’epigrafe di universo. La parola, la sua possibilità, il soggetto che respira la profondità delle cime dell’essere sono le enuncazioni che si dividono nell’antropologia struggente di san Paolo e sant’Agostino e nella tragedia umana. Anche Mario Luzi tradusse e si occupò con la vastità del suo magma di Racine, pose gli accenti sul “tragico cristiano” che pervade l’opera dello scrittore francese. Il suo universo ha bisogno di un disfacimento di ombra. Il lavoro di versificazione è millimetrico e versatile, scompone e ricompone regole, vive la Bibbia come nucleo e origine di un gesto forte e suasivo. La traccia di luce è la sua inquietudine, il suo sprofondamento e il suo vertice. Come baluginìo e tormento. La poesia di Racine sembra, quindi, sporgersi sul disastro del moi e della contestualità tragica della parola e come scrive ancora giustamente la Santori: “ (…) quell’arsenale barocco di inganni, disinganni, autoinganni, «fausses nouvelles», tranelli, malintesi, ha un duplice statuto, funzionale e morale. Esso inerisce certamente alla tecnica e al funzionamento teatrali e agisce come innesco dell’azione drammatica”. I Cantici e gli Inni rappresentano lo snodo di un’antinomia che insegue l’eternità della Verità, il nocciolo della vibrazione dell’essere. La singolarità dell’esperienza racinianna vive dell’intimità assorta e inquieta e come nel suo suono lacerato, uno spalancamento di fondo e vertigine. Questo processo intuitivo avviene attraverso la spoliazione del linguaggio, scarno ed essenziale, che ricerca e comunica la Verità come dismisura e capogiro di Dio. Nel suo testamento il grande drammaturgo e scrittore ricorda, condannandoli, gli eccessi, l’indegnità del suo sperpero esistenziale, chiedendo di essere sepolto nella sua comunità religiosa, che aveva abbandonato per dedicarsi al suo palcoscenico di voce: il teatro.
Andrea Galgano
Laureato in Lettere moderne all'Università della Basilicata, docente e critico letterario presso il Polo Psicodinamiche di Prato.
per gentile concessione del Forum 2012 Polo Psicodinamiche la versione PDF
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